Ha atteso 35 anni Giuseppe Tomasello prima di ridare luce a delle vecchie diapositive trovate nel centro di Firenze a metà degli anni ottanta. Un’attesa non passata invano, che ci dice qualcosa di noi, di ciò che siamo e che stiamo vivendo, svelandoci al contempo qualcosa dell’artista. Ci potremmo infatti chiedere, legittimamente, che cosa ci sia di originale nello stampare immagini scattate da un anonimo che lo stesso, o chi per lui, ha rifiutato abbandonando quella scatoletta di ricordi evidentemente divenuta insignificante.
Cosa avrà spinto Tomasello ad impossessarsi della memoria altrui rimane un segreto solo ipotizzabile, sta di fatto che egli diviene giudice unico di un ricordo rifiutato, al quale negli anni si è posta d’innanzi costantemente la scelta di preservare o distruggere. In questo senso le azioni compiute dall’artista danno valore di una scelta, quella di proiettare in avanti la memoria nella quale tuttavia il tempo non ha evitato la propria azione. L’imprevedibile entra dunque nella realtà alterandola, è questa la magia che Tomasello ci svela. Nel semplice atto di conservare egli ha in realtà permesso l’evolversi di una nuova possibilità che modifica formalmente l’immagine iniziale, generando una patina che vela lo scatto originario, quasi un risarcimento linguistico concesso dal tempo al custode Tomasello, da sempre impegnato nel declinare l’idea di velatura nella propria ricerca artistica. La resa di queste immagini rinate, in cui l’artista se ne appropria limitandosi ad annullare i colori e a trasferire su grandi formati, è il frutto dell’azione del tempo in cui il fantastico e il reale si confondono, dando vita al poetico ricordo di un vissuto. Un ricordo come i tanti che sedimentano nell’animo umano, ai quale talvolta rimaniamo aggrappati ed altre tentiamo di fuggire, sperando tuttavia sempre che quell’immagine nebulosa, sospesa nel limbo fantasmagorico della memoria possa nuovamente proiettarsi nella nostra realtà, concedendoci ancora tempo per viverlo.