Cinque anni in posa fluviale, stupefatti dagli incontri, tutti vissuti nella direzione di un cinema sbordante, umilissimo ma capace d’improvvisi guizzi, come quando il fotogramma è chiamato a ridestare un film assopito nella pietra o a decretare, con lo stesso gesto iniziatico, una seconda nascita dell’immagine. Un cinema vertebra, poi reggimento d’ossa, poi ancora tenue incrinamento di tutto lo scheletro. Un cinema che ribadisce il carattere androgino della visione; che sta sempre nel mezzo di ogni relazione; che connette, disgiunge, monta, sovrappone e s’allarma quando avverte il lampaneggio delle cose; che fa di noi stessi -della nostra interiorità- il luogo in cui s’agita e rimescola tutta l’esteriorità del mondo. I titoli, in ordine cronologico: Ogni roveto un dio che arde (2016), Nell’insonnia di avere in sorte la luce (2018), Ubi Amor Ibi Oculus (2020).
I viandanti, come triplice levigazione della stessa figura: il Pellegrino, il Mago, il Cieco. I luoghi: Italia e Irlanda, o meglio, il movimento incessante che conduce da una terra all’altra, sempre «camminando nell’immagine», secondo quanto recita il salmo XXXVIII (Verutamamen in imagine pertransit homo). L’esito, a conferma dei propositi d’indagine: il momento in cui la luce si smorza coincide con il suo mezzogiorno più sfavillante. Raccogliamo qui – grazie alla lungimiranza di Satellite e alla cura di Mauro Santini – un atlante di materiali che per quanto limitato, non rinuncia a essere drenaggio intransigente della vita che opera nella materia. Per noi, il cinema incomincia oltre lo schermo, ogni qual volta si riesce a sbrecciare la prima immediatezza del reale e a rendere afferrabile – anche solo per un istante – la celata visibilità di ciò che ci sta intorno.
Il resto è sole sepolto nelle palpebre, «per conservare luminosa la preistoria delle stelle». Che il cinema sia un’invenzione senza avvenire non esclude che attraverso esso non si possa manifestare un avvenire dell’immaginazione. Ecco perché ci ostiniamo a girare.